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Come ti smaschero il greenwashing

10/07/2023

Come ti smaschero il greenwashing

Era il 1986 quando l’ambientalista Jay Westerveld utilizzò per la prima volta il termine greenwashing. Una parola che ha assunto una valenza importante nel dibattito pubblico, soprattutto nell’ultimo decennio. Ma cosa significa e com’è nato il greenwashing?

Nato dalla fusione dei termini inglesi green (verde) e washing (lavare), il neologismo è stato coniato a partire da “whitewashing” che, letteralmente, vuol dire imbiancare, coprire o nascondere. Ma nascondere cosa? In Italia lo traduciamo come “ambientalismo di facciata” o “ipocrisia verde”, e si riferisce alla pratica – piuttosto diffusa nelle aziende – di ingannare i consumatori sensibili alle tematiche ambientali attraverso strategie di marketing e comunicazione che enfatizzano le azioni green dell’azienda, veicolando messaggi mistificatori e irreali.

Greenwashing

Ma per capire come e perché è così diffuso al giorno d’oggi è necessario tornare un po’ indietro nel tempo. I primi soggetti a essere accusati di greenwashing sono state alcune catene alberghiere che chiedevano ai propri clienti di conservare i propri asciugamani per più giorni, così da ridurre gli sprechi e l’impatto sull’ambiente. In realtà, il solo scopo di questa iniziativa era guadagnare una buona immagine e diminuire i costi di lavaggio della biancheria. Tuttavia, è stato solo con gli anni ‘90 che l’attenzione all’ambiente si è fatta prioritaria, con il concetto di greenwashing estesosi notevolmente, arrivando fino alle organizzazioni politiche, enti e istituzioni che volevano guadagnare la fiducia e il sostegno delle persone.

Oggi, infatti, è facile accorgersi di come molti marchi nazionali e internazionali propongano prodotti accompagnati da etichette e termini come eco, green, cares, conscious, responsabile, consapevole, e altri simili, richiamando alla circolarità e alla sostenibilità del prodotto. Ma è tutto vero?

Il report di Greenpeace Greenwash danger zone. 10 years after Rana Plaza fashion labels conceal a broken system, ha verificato cosa si nasconde dietro la presunta sostenibilità di alcune etichette di grandi marchi, controllando la veridicità delle molte iniziative di marketing sostenibile. Nell’indagine è emerso che delle 29 aziende passate a setaccio da Greenpeace solamente le etichette di 2 marchi hanno ottenuto buoni risultati: una campagna, infatti, è risultata credibile, mentre l’altra ha ricevuto il semaforo giallo, cioè abbastanza credibile.

Quello che più salta all’occhio nel report, però, è che a fare greenwashing sono in particolare i brand di fast fashion e ultra fast fashion. Infatti, questo particolare tipo di acquisto e vendita non può essere definito sostenibile, poiché sono modelli di business basati su un’economia lineare anziché circolare, come ad esempio la moda second hand, che allunga il ciclo di vita dei vestiti.

Le pratiche di marketing “green” più diffuse dei brand fast fashion, seguendo sempre l’analisi Greenpeace, sono nove e si legano principalmente ai materiali utilizzati – come ad esempio il ricorso frequente a mix di fibre tipo il policotone, presentati come più ecologici –, al miglioramento di un singolo parametro a discapito dei consumi complessivi e l’assenza di un quadro normativo stringente e di controlli adeguati. Di questo ultimo punto parla anche Fabio Iraldo, docente di Management alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ed esperto di circolarità e di lotta al greenwashing. In una lunga intervista il docente ha sostenuto come vi sia l’assoluta mancanza di una normativa europea che renda davvero vincolanti i criteri per assicurare la piena correttezza della comunicazione green di prodotti e servizi. Inoltre, le aziende possono utilizzare il metodo che preferiscono per dimostrare il livello di sostenibilità delle proprie azioni e, tra i molti, solamente alcuni sono strumenti di calcolo robusti, mentre altri molto meno.

Ma il greenwashing non si nasconde solo dietro ai brand di moda o di altri generi di prodotti. Possiamo incontrarlo anche in qualche iniziativa sostenibile messa in atto da un'azienda o ente. Vi siete mai imbattuti, citando uno tra i molti casi, in alcune campagne marketing di imprese che promuovono la riforestazione piantando un albero per ogni cittadino della zona? Alcune volte, dietro questi progetti green si nasconde il greenwashing.

Greenwashing

Ma come è possibile evitarlo? La Federal Trade Commission (FTC) statunitense ha redatto una vera e propria lista di buone abitudini da adottare per non cadere nella trappola del greenwashing, la Guides for the user of environmental marketing claims. Qui sono infatti elencati alcuni termini a cui prestare particolare attenzione, come ad esempio le affermazioni generiche “rispettoso dell’ambiente”, “compostabile”, “biodegradabile”, “contenuto riciclato” o “riciclabile” che, se inseriti, devono necessariamente essere accompagnati da dati e studi scientifici.

Infatti, l’azione fondamentale per evitare il greenwashing è guardare se le aziende che dichiarano le loro campagne o prodotti sostenibili esplicitano anche le motivazioni, l’ambito a cui si riferiscono le certificazioni o quali parametri di calcolo sono stati usati per definirli tali. Per tutti i prodotti cosiddetti sostenibili, infatti, dovrebbero essere esplicitati i benefici ambientali che rimandano a maggiori informazioni a riguardo.

È quello, per esempio, che fa Pulsee Luce e Gas con tutti i propri servizi di valore. Oltre a garantire sempre energia elettrica verde certificata al 100% da fonti rinnovabili, offre altri strumenti per limitare il proprio impatto sul pianeta. Tramite la sottoscrizione di Gas Compensation, ad esempio, si può compensare la produzione di CO2 dell’utilizzo del proprio gas naturale, contribuendo all’acquisto di certificati verdi che finanziano progetti di sostenibilità.