Cos’è la carne coltivata? Definizione, studi, pro e contro
Consumo consapevole
Lo scorso 20 luglio in Italia è stato approvato il Disegno di Legge che vieta produzione, consumazione e commercio di carne coltivata in laboratorio in tutto il territorio. L’argomento ha fatto parecchio discutere, vedendo la formazione di schieramenti contrapposti: da un lato chi è favorevole all’introduzione di questo divieto, dall’altro chi invece approva l’introduzione nelle tavole degli italiani della carne coltivata per questioni sia etiche, che economiche e ambientali. Il tema è di certo complesso: si tratta, infatti, di un prodotto di recente lavorazione, innovativo e consumato in solo tre Paesi al mondo, America, Israele e Singapore. Cerchiamo, allora, di capire qualcosa di più su questo tema.
La carne coltivata è carne. Questa definizione potrebbe di certo lasciare perplessi, ma il fatto che non esista (ancora) una vera e propria descrizione obbliga a questa affermazione. È il metodo con cui viene creata a permettere di capire veramente di cosa si tratta. Il processo deriva dall’agricoltura cellulare, una branca della biotecnologia, in grado di realizzare qualsiasi tipo di cibo non lavorato a partire da un’unica cellula dell’organismo che si vuole riprodurre. Nello specifico la carne coltivata si ottiene prelevando cellule da un animale vivo e sano che vengono fatte proliferare – coltivate, per l’appunto – in un bioreattore in grado di ricreare le condizioni del corpo animale, ad esempio la temperatura, l’acidità, il ph, e di alimentare le cellule poi con una miscela di nutrienti. Per questo motivo è più opportuno chiamarla “carne coltivata” anziché “carne sintetica” che, non solo indica un processo chimico differente, ma porta con sé anche una connotazione negativa, rimandando al concetto di “non naturalità” del prodotto e alimentando un pregiudizio poco lusinghiero.
Se nel nostro Paese, infatti, è un prodotto emerso di recente, in realtà questa tecnica non è una novità assoluta. I primi esperimenti, fatti dal premio Nobel Alexis Carrel, risalgono al 1912, anche se è stato necessario attendere fino alla seconda metà del ‘900 per i primi brevetti in Olanda e America. Lo stesso si può dire della presunta “novità” del metodo, che in realtà è da tempo utilizzato per produrre latte e derivati, come lo yogurt, e anche la birra.
Trattandosi di un prodotto con un elevato potenziale in vari aspetti – considerando la prospettiva di produrre proteine animali riducendo la sofferenza animale, il consumo di suolo e la soddisfazione della richiesta di cibo di una popolazione in progressivo aumento – FAO e World Health Organization (WHO) sono intervenuti con uno studio sulla sicurezza alimentare di questo prodotto, Food safety aspects of cell-based food.
Ne sono emersi una serie di rischi specifici per le quattro fasi della produzione di cibo sintetico, partendo dall’estrazione e coltivazione delle cellule fino ad arrivare alla trasformazione alimentare. Tra i rischi principali ci sono la contaminazione con sostanze di derivazione biologica, farmacologica (come gli antibiotici), chimica, con materiali come microplastiche, metalli pesanti oppure la comparsa di nuovi allergeni.
Tuttavia, i rischi non sono esclusivi della carne sintetica, ma , come sottolinea lo studio, appartengono a diverse produzioni alimentari e cibi, alcuni tradizionali, gestibili attraverso test estesi, procedure di igiene, controlli, certificazioni sugli animali di provenienza ed etichettatura per segnalare eventuali allergeni. In sostanza, la carne coltivata è sì un prodotto innovativo, ma presenta le stesse problematiche di molte altre produzioni tradizionali di cibo.
Il primo e indubitabile vantaggio della carne coltivata è quello del rispetto del benessere degli animali: con questo sistema produttivo vengono evitati maltrattamenti e sofferenze.
Circa la sostenibilità, invece, ad oggi sono presenti studi contrastanti. Secondo l’elaborato Environmental impacts of cultured meat: A cradle-to-gate life cycle assessment – reso pubblico da poco ma non ancora sottoposto a revisione – e quello condotto da Good Food Institute, la carne coltivata ha un minor impatto ambientale rispetto a quella tradizionale, poiché non si utilizzano terreno, mangimi, antibiotici, acqua ed energia durante l’allevamento e la macellazione. Di parere parzialmente contrario sono i ricercatori della Oxford Martin School che, con uno studio pubblicato su Frontiers in Sustainable Food Systems, affermando che allo stato attuale della transizione energetica le emissioni di Co2 emesse con la produzione di carne coltivata potrebbero permanere a lungo nell’atmosfera. Le cose però cambierebbero notevolmente se i laboratori venissero alimentati con energie rinnovabili, che renderebbero la produzione decisamente più sostenibile. Infine, a ribaltare le carte in tavola mettendo una croce sopra alla carne coltivata è Derrick Risner dell'Università della California Davis, che nel proprio report indica che il suo potenziale di riscaldamento globale potrebbe essere da 4 a 25 volte superiore a quello della carne bovina tradizionale.